Omelia di fr. Alessandro Coniglio - Litostroto, 29 marzo 2023

Omelia di fr. Alessandro Coniglio - Litostroto, 29 marzo 2023

Peregrinazione al Litostroto: Is 53,1-10; Sal 68,8-10.15-19; 1Pt 2,20b-25; Gv 19,16-22

Carissimi fratelli e sorelle, il Signore vi dia pace!

In questa peregrinazione al luogo della condanna a morte di Gesù, la liturgia della parola ci offre come prima lettura e come salmo responsoriale, due brani che abbiamo già ascoltato, al Getsemani il primo e alla Flagellazione il secondo, seppure con piccole variazioni. In particolare il brano di Isaia 53 riprende la vicenda del servo sofferente, arrivando sino al suo destino di morte (“Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi… Gli si diede sepoltura con gli empi…”, Is 53,8.9). Del servo del Signore si sottolinea il suo silenzio (“…non aprì la sua bocca…”, ripetuto due volte al v. 7), e la sua mansuetudine nella situazione di ingiusto dolore che soffre, che permettono al profeta di paragonarlo a “un agnello condotto al macello”, alla “pecora muta di fronte ai suoi tosatori” (v. 7).

La menzione della pecora richiama lo stesso termine presente in Gen 22,7-8 ed Es 12,3-5, cioè l’agnello del sacrificio nell’episodio della legatura di Isacco, e l’agnello della prima Pasqua nell’Esodo, oltre che l’agnello per vari sacrifici nel libro del Levitico (Lv 5,7; 12,8; 22,28; 27,26…). Questa sfumatura di offerta cultuale nel sacrificio del servo è del resto esplicita in Is 53,10, perché si dice che “offrirà se stesso in sacrificio di riparazione”, altro termine tecnico del vocabolario sacerdotale per alcuni riti particolari di compensazione/soddisfazione per un peccato commesso (cf. Lv 5; 6,10; 7; 14; 19,21-22…). Il servo del Signore, allora, offre la sua vita, subendo ogni sorta di oltraggi e sofferenze, fino alla morte, perché carico del peso delle nostre sofferenze e dei nostri dolori, delle nostre colpe e delle nostre iniquità (Is 53,4-5), così che le sue piaghe e la sua morte divengono la compensazione per la nostra colpa. Nella sua pena, quindi, vediamo il costo, il prezzo del nostro peccato. Per recuperare la nostra mancanza, Dio ha pagato con la vita del suo servo fedele e innocente, che non ha opposto alcuna resistenza a questo disegno di salvezza.

Questa stessa dinamica l’abbiamo contemplata nella scena evangelica che abbiamo appena ascoltato: Gesù, dichiarato innocente da Pilato (ricordate il Vangelo della Flagellazione, Gv 18,38; 19,4), è abbandonato ad un destino di morte, condannato a portare da se stesso la croce, cioè la legna della propria immolazione, come aveva fatto Isacco in Gen 22,6. Gesù stesso sarà l’agnello dell’olocausto, che Diosi sarebbe provveduto nel luogo del sacrificio, secondo la parola di Abramo al figlio Isacco (Gen 22,8), la pecora muta offerta in sacrificio di riparazione, secondo la parola di Isaia (53,7.10). La morte di Gesù, allora, sostituisce la nostra morte, quale salario del peccato (cf. Rm 6,23), affinché il documento scritto contro di noi fosse inchiodato alla sua croce (cf. Col 2,14), “perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia” (1Pt 2,24), come ci ha ricordato la seconda lettura. L’apostolo Pietro ha intrecciato varie citazioni di Is 53 proprio per ricordarci che le piaghe di Cristo sono state la fonte zampillante della nostra salvezza, la sua innocenza è stata la nostra giustificazione, la sua immolazione come pecora muta è stata la nostra ricomposizione come gregge riunito “al pastore e custode delle nostre anime”, il suo silenzio e la sua mancata opposizione al male sono state la guarigione della nostra tendenza a farci giustizia da soli e a vendicarci, la sua morte è stata la nostra vita…

Anche questo santuario della Passione ci mette quindi di fronte a dei paradossi sull’immagine di Dio: la Parola di Dio, il suo Verbo eterno, fattosi uomo, si è annichilita nel silenzio, di fronte a chi lo accusava; l’Innocenza stessa di Dio, la purezza infinita, l’impeccabile, “Dio lo fece peccato per noi” (2Cor 5,21); il benedetto per eccellenza è diventato lui stesso maledizione, pendendo dal legno (cf. Gal 3,13); colui che è la Vita stessa del Padre “è stato consegnato alla morte a causa delle nostre colpe” (Rm 4,25). Questo è l’indicativo della salvezza, quello che Dio ha fatto per noi, l’evento di redenzione in cui noi non abbiamo avuto alcuna parte, perché tutto è stato dono assoluto di Dio, grazia infinita offerta a noi dal Padre, attraverso il Figlio, nello Spirito Santo.

Ma a questo dono corrisponde un imperativo della salvezza, come ci ha ricordato la 1Pt: “Carissimi, se facendo il bene sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, perché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme”. La vita cristiana non è solo contemplazione estasiata del mistero paradossale di Dio, ma sequela concreta dell’Agnello immolato, per ricalcarne le orme. Il mistero del Dio che si fa uomo e sopporta la morte per espiare il peccato degli empi deve diventare una regola di vita per noi, che abbiamo beneficiato di questo regalo. Ma come corrispondere a questo amore, che è gratuità assoluta? Cosa dare in cambio a Dio per la sua immensa generosità? Non sarebbe solo blasfemo pensare che possiamo noi restituire qualcosa a Colui che è sorgente infinita di ogni bene? Non si tratta infatti tanto di restituire, di ripagare quanto è impagabile da parte nostra. Si tratta di imitare la vita di Dio… La cosa può sembrare ancora più assurda e impossibile. Come posso imitare l’esempio dell’agire di Dio, io che sono solo un uomo? Eppure, da quando abbiamo iniziato queste peregrinazioni quaresimali, il mistero del pathos di Dio non ci è stato offerto solo perché noi lo conoscessimo, ma perché noi lo imitassimo. Il pianto di Dio, la sofferenza di Dio, la sua sopportazione del male e del peccato del mondo, la sua assunzione di quel peccato, il dolore di Dio, ovvero “l’amore di Dio fondato nel dolore di Dio”, come avrebbe detto Kitamori (K. Kitamori, Teologia del dolore di Dio, Brescia 1975), sono stati offerti alla nostra contemplazione perché noi li trasformassimo in scelte di vita concrete. Anche il pellegrino che da questo santuario comincia la Via Crucis non può limitarsi a rievocare il segno dell’amore sofferto da Dio per noi, senza coinvolgersi in esso. Madre Teresa di Calcutta ripeteva: “Ama finchéti fa male, fino a provarne dolore”. Guardare al Christuspatiens, vedere Gesù che qui porta la sua croce, significa entrare anche noi nella logica del dono totale di noi stessi, dell’offerta piena della nostra vita, senza calcoli e senza risparmio, costi quel che costi.

In una celebre pagina Origene ha scritto (Omelie su Ezechiele, VI, 6): “[Il salvatore] è disceso sulla terra mosso a pietà del genere umano, ha sofferto i nostri dolori prima ancora di patire la croce e degnarsi di assumere la nostra carne. […] Prima ha patito, poi è disceso e si è mostrato. Qual è questa passione che per noi ha sofferto? È la passione dell’amore. Persino il Padre, il Dio dell’universo, «pietoso e clemente» (Sal 102,8) e di gran benignità, non soffre anche lui in certo qual modo? […] Se lo preghiamo, prova pietà e misericordia, soffre di amore e s’immedesima nei sentimenti che non potrebbe avere, data la grandezza della sua natura, e per causa nostra sopporta i dolori degli uomini”.

Essere i credenti nel Dio che ha sofferto la passione dell’amore per noi, significa essere allora disponibili a soffrire con pazienza ogni disagio e ogni pena pur di liberare gli altri dalle loro pene. Significa che la verità del nostro amore si misura sulla verità della nostra sofferenza, cioè del dolore che sappiamo assumere su di noi sull’esempio del Cristo, agnello che toglie il peccato del mondo (cf. Gv1,29.36), agnello senza difetti e senza macchia, il cui Sangue prezioso ci ha liberati dalla nostra vuota condotta, ereditata dai nostri padri (cf. 1Pt 1,19).