Omelia di fr. Alessandro Coniglio - Getsemani

Omelia di fr. Alessandro Coniglio - Dominus Flevit, 8 marzo 2023

Peregrinazione al Dominus Flevit: Ger 14,17-21; Sal 78,8-9.11-13; Fil 3,17–4,1; Lc 19,41-44

Carissimi fratelli e sorelle, il Signore vi dia pace!

Il mistero che celebriamo in questo giorno è, come dice il nome stesso del santuario in cui ci troviamo, il pianto del Signore! L’espressione si riferisce al Vangelo che abbiamo appena ascoltato, in cui il Signore Gesù pianse su Gerusalemme alla vista della città da questo stesso monte. Gesù è vero uomo, oltre che vero Dio, quindi non ci scandalizza né ci stupisce che possa aver pianto. Anzi, i Vangeli ci parlano ancora del pianto di Gesù, come ricorderemo, ad esempio, a Betania, per la morte del suo amico Lazzaro.

Ma il nome del santuario, in cui stiamo celebrando, presenta un’evidente ambiguità: perché se è vero che nel Vangelo di Luca il titolo usuale di Gesù è quello di ‘Signore’, Dominus in latino, questo stesso titolo traduce l’ebraico ‘Adonai’, cioè la pronuncia del Nome ineffabile di Dio, espresso in ebraico dal tetragramma sacro (yod - he - waw - he). Dunque è il Signore che pianse, cioè Gesù in quanto Dio, non solo in quanto uomo, sembra dirci il titolo di questo santuario.

Ed in effetti, nella prima lettura, tratta dal profeta Geremia, abbiamo sentito proprio questo sconvolgente annuncio: “I miei occhi grondano lacrime notte e giorno, senza cessare” (Ger 14,17). Chi pronuncia queste parole? Chi parla? È il Signore Dio! È Adonai, il Dio d’Israele, che dice a Geremia di riferire al popolo questa parola sconvolgente… Sconvolgente perché il suo antropomorfismo potrebbe disturbare la nostra sensibilità filosofica: Dio non ha occhi per poter piangere, Dio non è un uomo, da provare sentimenti come la tristezza o il dolore… Eppure la Parola di Dio ci comunica proprio questo: Dio piange, l’Impassibile, cioè colui che non può conoscere passioni alla maniera dell’uomo, e non può mutare d’animo, come avviene invece agli uomini, proprio questo Dio, che la filosofia ci descrive come privo di sensibilità, non soggetto a cambiamento, proprio Lui piange. E il pianto è segno di una sofferenza acuta, insopportabile… Dio ha occhi che grondano lacrime, in modo inarrestabile, dice Geremia. La cosa è apparsa così impossibile agli antichi traduttori greci della Bibbia ebraica, che hanno modificato la frase, leggendo: “Fate grondare dai vostri occhi lacrime…”. Nell’originale ebraico Dio non invita il popolo a piangere, ma esprime il suo proprio pianto per quanto sta avvenendo a Gerusalemme: “da grande calamità è stata colpita la vergine figlia del mio popolo, da una ferita mortale” (Ger 14,17).

L’estremo paradosso di questo dolore di Dio, di questa sofferenza che egli prova, è che lui stesso è all’origine della piaga con cui ha colpito Gerusalemme, perché la fame e la spada che fanno strage dei suoi abitanti sono esattamente il castigo annunciato da Dio pochi versetti prima del brano che abbiamo letto (Ger 14,12): “Anche se digiuneranno, non ascolterò la loro supplica; se offriranno olocausti e sacrifici, non li gradirò, ma li distruggerò con la spada, la fame e la peste”. I peccati del popolo sono tali e tanti da non esserci più possibilità neppure di intercessione da parte del profeta, anche perché essi si illudono credendo ai falsi profeti che annunciano (Ger 14,13): “Non vedrete la spada, non soffrirete la fame, ma vi concederò una pace autentica in questo luogo”. L’accecamento del popolo è alla base della sua punizione, che assumerà proprio la forma della spada e della fame (Ger 14,18)! Ma ecco il paradosso: Dio che infligge la pena, è colui che soffre con il popolo e per il popolo! Il Signore non si limita a punire il male, ma si fa Egli stesso carico della sofferenza che questo male produce, pur non volendo eliminarlo con un colpo di spugna, perché questo contraddirebbe la Sua giustizia divina. Egli deve punire il peccato dell’uomo, perché l’uomo capisca l’enormità della trasgressione che ha commesso, perché Dio nella sua giustizia non può essere indifferente al male, ma il suo cuore di Padre sanguina alla vista degli effetti del castigo. Il peccato dell’uomo sembra spezzare la stessa identità di Dio, lacerato tra il dovere di fare giustizia e il dovere di amare senza fine e senza riserve quei figli ribelli che chiamano su di sé una tale pena per il peccato.

Questo stesso paradosso si ripete nella vita di Gesù: anche egli piange alla vista della città di Gerusalemme, di questa città che è ora anche davanti ai nostri occhi. Piange perché il suo popolo non ha compreso “quello che porta alla pace”, cioè alla pienezza dei beni messianici promessi dai profeti[1], ovvero allo stesso Gesù, che è la nostra pace (Ef 2,14.17). E superato un certo limite, non c’è più modo di tornare indietro: “Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi” (Lc 19,42), ha detto Gesù nel Vangelo. Gerusalemme non ha riconosciuto il tempo in cui Dio la stava visitando per chiamarla a conversione, per esigere che pagasse il conto dei propri peccati (Ger 14,10!), prima che l’unico modo per poter saldare il debito da lei contratto con Dio fosse la propria distruzione.

Gesù è il Figlio di Dio, è colui che ha il potere di eseguire la sentenza contro la città ribelle o di graziarla… Ma come il Padre suo in Geremia aveva dovuto condannare la città, eppure aveva pianto di questo atroce destino di morte, così Gesù, pur riconoscendo che a Gerusalemme non resta altra alternativa che morire nel suo peccato, piange la sorte tremenda che attende la città, perché, come avrebbe detto Geremia, Gerusalemme è il trono della gloria di Dio (cf. Ger 14,21)…

Dietro questo pianto di Dio e di Gesù suo Figlio c’è però la piena assunzione da parte del Signore della sofferenza stessa che colpirà la Sua città, cioè, per metonimia, il Suo popolo, coloro con cui Egli ha stretto un patto di alleanza, che è un patto nuziale, un patto d’amore. Dio ripudia la Sua sposa infedele, ma ne soffre intimamente, non ne prova alcun gusto, perché Egli non gode della morte del peccatore, ma che si converta e viva (come abbiamo sentito ripetere spesso in questa Quaresima, cfr. Ez 18,23; 33,11). E se il peccatore non riesce a convertirsi e chiama su di sé un castigo mortale, Dio non si compiace della sua perdizione, ma ne piange con un pianto che non cessa, che non ha fine, che non può esaurirsi… Esattamente come abbiamo ascoltato fare da Paolo nella lettura di Filippesi: egli ripete, “con le lacrime agli occhi”, che molti si comportano da nemici della croce di Cristo e vanno perciò in perdizione, perché cercano la giustificazione nelle osservanze giudaiche invece che nella grazia di Cristo. Ma Paolo non ne gode, non gioisce di essere lui nella verità ed essi nell’errore: essi sono anime costate il Sangue di Dio, costate le Sue lacrime incessanti, costate la morte stessa di Dio, che ha voluto farsi carico con la Sua morte del castigo mortale che noi meritavamo a motivo delle nostre colpe.

L’immagine di Dio che questo santuario allora ci trasmette va riappropriata dalla Chiesa: di fronte alle lacrime del Redentore, che sono anche le lacrime del Dio d’Israele, dobbiamo riscoprire il pathos di Dio, come lo avrebbe definito l’intellettuale ebreo Abraham Joshua Heschel, in un suo celebre libro sul profetismo biblico[2]. Dio si rivela nella passione che esprime, e questo non è un ingenuo antropomorfismo, ma vera manifestazione della sollecitudine che Dio ha per l’uomo, del suo coinvolgimento pieno nella storia umana. Il giudizio che Dio pronuncia su Gerusalemme, tanto nell’Antico come nel Nuovo Testamento, non è espressione dell’indifferenza del Signore per la sorte del suo popolo, per noi, ma, al contrario, dell’amore appassionato che prova per noi. Il cammino che faremo insieme in queste peregrinazioni di Quaresima spero che ci porterà a comprendere meglio il Dio di Gesù Cristo, secondo i suoi caratteri biblici, e non meramente filosofici[3], per poterci immergere in queste lacrime di Dio come in un nuovo Battesimo (non è forse il cammino di Quaresima anche un cammino di catecumenato?), da cui uscire rinnovati e trasformati nella Pasqua di resurrezione, meta del nostro camminare insieme.

 

 

 

[1] Cf. Is 2,2-5; 9,5-6; 11,1-9; 60,17; 65,23-25; Ger 23,5-6; Ez 34,23-31; Mi 5,1-4; Zc 9,9-10…

[2] A. J. Heschel, The Prophets, New York 1962, tradotto in italiano come Il messaggio dei profeti, Roma 1981.

[3] Cf. il memoriale di B. Pascal: «“Dio d’Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe” non dei filosofi e dei dotti. […] Dio di Gesù Cristo […] Egli non si trova che per le vie insegnate dal Vangelo. […] Egli non si conserva che per le vie insegnate dal Vangelo. […]». Lungi da me il contrapporre il Dio della Bibbia e quello della filosofia, sono ben consapevole che l’unico Dio ha creato la natura umana, capace di fede in Lui, e capace di raggiungere, attraverso dei præambula fidei razionali, alcune verità naturali su Dio.