Intervista a Mons. Sabbah: l’ostacolo alla pace è la paura della pace | Custodia Terrae Sanctae

Intervista a Mons. Sabbah: l’ostacolo alla pace è la paura della pace

Al termine della lettura del suo messaggio di Pasqua 2008, il patriarca latino di Gerusalemme, Sua Beatitudine Mons. Michel Sabbah ha concesso una conferenza stampa. Si è spiegato con un giornalista tedesco sul termine martire, utilizzato nel suo messaggio di Pasqua a proposito dei morti palestinesi. « La parola martire è una parola normale. Fa parte del vocabolario arabo e musulmano per designare ogni persona che muore durante un conflitto. Non ha la stessa connotazione del termine cristiano ». Il Patriarca, Mons. Michel Sabbah, in seguito ci ha concesso una lunga intervista.


Beatitudine, qual è il Suo messaggio agli Israeliani e ai Palestinesi in questa vigilia di Pasqua?
Pasqua, come cristiano, è la festa della risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo e questo vuol dire la vittoria sulla morte e su ogni forma di male.
Ora qui, in questo paese, che è il paese della Risurrezione, che è una terra di Dio, che è una Terra Santa, noi siamo sempre nel cuore di un conflitto e in una situazione di morte e di odio. Il nostro messaggio agli Israeliani e ai Palestinesi è questo: « Voi avete camminato, fino ad oggi e per quasi cento anni, nelle vie della violenza, e malgrado questo, dopo 100 anni, non siete arrivati né alla pace né alla sicurezza. Cambiate dunque le vostre vie, trovate altri mezzi, e voi li conoscete: colloqui, dialoghi, comprendere i bisogni degli altri, mettersi al posto dell’altro per poter arrivare ad un accordo che possa trovare e dare tutto quello che è dovuto a ognuna delle parti».
Gli Israeliani vogliono la sicurezza e vogliono la pace; i Palestinesi vogliono la loro indipendenza, la loro sicurezza parimenti, e la pace. E sono capaci di arrivarci. Ci sono molte opposizioni per delle ragioni ideologiche, per delle ragioni politiche, a causa della paura della pace. Secondo me, il principale ostacolo alla pace, è la paura della pace.
In Israele la pace è un rischio che gli Israeliani ritengono prematuro prendere. È un rischio che li esporrebbe a permettere ai Palestinesi di diventare più forti e di sviluppare i loro mezzi di resistenza e di violenza. Per questo gli Israeliani hanno paura della pace. Il mio consiglio è di non avere paura. La paura non può permettere a una persona o a un popolo di vivere pienamente la sua vita. Bisogna correre il rischio della pace, semplicemente. Ed è questo l’unico mezzo per ottenere una vera e totale sicurezza. I poteri politici hanno un’alternativa: o la pace, ed essi avranno la sicurezza; oppure niente pace e ci sarà l’estremismo che cresce e l’insicurezza che aumenta. Tocca a loro scegliere. E dovrebbero scegliere la pace. Ora, scegliere la pace può essere un rischio per la vita personale del capo firmatario di un accordo di pace. Ma se un capo politico è lì per servire il suo popolo e non per conservare la poltrona, deve accettare il rischio di dare la sua vita per il suo popolo.

In quanto primo Patriarca latino palestinese da secoli, ha una lettura diversa di quello che sta accadendo nella regione?
Ho semplicemente la lettura dei fatti che avvengono. Ci sono gli Israeliani con le loro esigenze, e i Palestinesi con le loro esigenze. Per me, nei due casi, si tratta di persone umane, uguali in dignità, in diritti e in doveri. Come palestinese, come cristiano, ognuno deve avere ciò che gli è dovuto: Israele il suo Stato riconosciuto, la sua sicurezza, la sua pace, senza aver più bisogno di soldati e di riservisti che uccidano o che siano uccisi. Per i Palestinesi è la stessa cosa. Si tratta di camminare verso la pace, per mettere fine ugualmente a tutto ciò che è milizia, armi irregolari, a ogni forma di violenza da parte loro.

Nel momento in cui conclude la Sua lunga carriera come Patriarca latino, è permessa una speranza di pace?
Bisogna sempre sperare, perché noi crediamo in Dio, e qui in questo paese, in tutto il Medio Oriente, tutti sono innanzi tutto religiosi e credenti, anche se non sono praticanti. L’Ebreo è prima Ebreo e poi Israeliano, il Palestinese è prima Musulmano e poi Palestinese, il Cristiano è prima Cristiano e poi Palestinese. Noi crediamo in Dio. Noi speriamo perché crediamo che Dio è buono, che Egli veglia su di noi, che è provvidenza.

Lei dice che ci vuole del coraggio per fare la pace. Sono gli Israeliani che devono averne di più?
Tutti e due, ma la decisione maggiore è nelle mani degli Israeliani. Se gli Israeliani dicono: «Noi siamo decisi a fare la pace », la pace si farà. I Palestinesi sono pronti. Gli Stati, il mondo arabo è pronto a normalizzare tutte le relazioni con lo Stato d’Israele. I Palestinesi hanno già scelto la pace. Conducono i colloqui per ottenere la pace. Israele non è ancora deciso. Ci sono molte opposizioni contro questa decisione.

In Israele, c’è volontà politica di fare la pace?
Non ce n’è. Non esiste ancora. Negli Israeliani c’è la paura della pace, per essi è un rischio. Sarebbe un gettarsi nell’ignoto, e questo potrebbe aumentare per essi l’insicurezza. Secondo me, l’unico avvenire di Israele si trova nella pace. La violenza è una minaccia permanente per la loro propria sicurezza, e persino per la loro esistenza. La demografia palestinese cresce. Il 20 % degli arabi israeliani con pieni diritti di cittadinanza sono Palestinesi. Un domani il 20% di Palestinesi diventerà il 40 %, il 50 % ed il carattere ebraico dello Stato scomparirà, e dunque sarà Israele che scomparirà come Stato Ebraico. Tocca ad essi prendere una decisione, e la loro salvezza è solo nella pace. (Il rischio) della loro morte o della loro insicurezza non si trova nella pace, ma si trovat nella continuazione di questa situazione di guerra.

Lei riteniene che il processo di Annapolis non offra veramente una speranza di pace?
La offre semplicemente; bisogna accoglierla, accettarla. Gli Stati Uniti lo vogliono. Il Presidente Bush è deciso. Ma bisogna domandare a Israele se è deciso. I Palestinesi sono pronti.

Ma quando lei ha incontrato il Signor Olmert (prima di Natale), ha avuto l’impressione che lui avesse una volontà politica?
Il Signor Olmert ha una vera volontà politica. Egli è deciso a fare la pace, ma, come ha detto, incontra degli ostacoli. Tocca a lui convincere la sua opposizione, e allora avremo la pace.

Quali sono questi ostacoli?
L’estrema destra, gli estremisti religiosi, il partito religioso che ritiene che tutta la terra deve restare israeliana e che nessun pollice di questa terra debba essere consegnato ai Palestinesi. E i religiosi hanno un potere politico, hanno dei seggi alla Knesset. Ecco l’opposizione con la quale il Signor Olmert deve trattare.

Lei ha detto che il mondo arabo era pronto a normalizzare le sue relazioni con Israele. Ma noi non possiamo ignorare - e Israele non può ignorare - che Hamas continua a rifiutare di riconoscere Israele. D’altronde l’islamismo cresce nei paesi arabi.
Hamas esiste. Hezbollah esiste. Sono una minaccia. Ma quello che fa esistere Hamas e quello che lo fa aumentare, è questa situazione di guerra nella quale ci sono ingiustizie, c’è la povertà e la miseria, e fin tanto che questa situazione esiterà ci sarà sempre Hamas e tutte le sue dichiarazioni e la sua volontà di finirla con Israele. Ma quando si farà una pace seria, definitiva, Hamas e Hezbollah finiranno col diminuire e perdere la loro influenza. Ci saranno sempre degli estremisti dalla parte palestinese, come dalla parte israeliana, ma queste parti saranno ridotte ad una minoranza senza influenza sull’avvenire del paese. Se si fa la pace, gli estremisti finiranno col diminuire e la gente non avrà più bisogno di loro.

Ritiene che Israele dovrebbe parlare con Hamas? Il dialogo con Hamas dovrebbe farsi sia da parte di Israele che da parte degli Stati Uniti e l’Unione Europea?
Israele, l’Unione Europea, la comunità internazionale devono parlare con l’Autorità Palestinese e accettare che l’Autorità Palestinese si riconcili con Hamas. Ma appena Hamas entra nel governo palestinese, la comunità internazionale boicotta tutto quello che è palestinese. Si tratta di riconoscere all’Autorità palestinese la possibilità di riannodare un’alleanza, perché la pace non si può fare solamente con una parte del popolo palestinese. Ci sono più di un milione e mezzo di persone a Gaza. Bisogna tenerne conto. Dunque bisogna che i due gruppi si riuniscano, diventino una sola realtà palestinese, che rappresentano insieme la volontà palestinese perché la comunità internazionale e lo stesso Israele possano fare degli accordi di pace. Ma finché Hamas è soggetto al boicottaggio e, appena entra nel governo, viene boicottato tutto il popolo palestinese, ci troviamo in un vicolo cieco.

Quando ha incontrato Abou Mazen [Mahmoud Abbas], gli ha consigliato di riaprire il dialogo con Hamas?
È il nostro consiglio. Bisogna ricomporre le due parti del popolo palestinese. Ora questa alleanza non dipende solo da Abou Mazen, ma dalla comunità internazionale. Una volta che sia fatta la riunione, e avendo Hamas diritto a far parte del governo, la comunità internazionale boicotterà di nuovo tutti.

Che consiglio da’ alla comunità internazionale?
Di lasciare tranquilli i Palestinesi, di permettere loro di riunirsi e di agire insieme, semplicemente. E se mai ci fosse Hamas nel governo palestinese, che sia rispettata la volontà palestinese.

Lei è stato Patriarca per 20 anni. Qual è stato il momento più difficile?
Tutti i momenti sono stati difficili, perché non abbiamo mai cessato di vivere nello stesso conflitto. Ogni giorno è una ripetizione dell’altro. Ogni anno è una ripetizione dell’anno passato: violenze, vittime, dal lato palestinese e dal lato israeliano.
Ci sono stati dei tempi di tregua; abbiamo potuto festeggiare il Giubileo del 2000, la visita del Papa. Questo è stato il momento meno difficile. Altrimenti, in tutti gli altri momenti, abbiamo vissuto delle difficoltà e la vita difficile è diventata la nostra vocazione e la nostra routine.

Lei ha detto nella Sua lettera pastorale che non ha denaro, né conto in banca: come vivrà adesso?
Vivrò nel Patriarcato. Non ho né stipendio né conto in banca, ma l’istituzione patriarcale si prende cura di questo come di ogni altro prete del patriarcato. È il patriarcato che si occupa della salute, del nutrimento, dell’alloggio ecc. dei preti in pensione. Noi facciamo parte di una comunità che non abbandona nessuno dei suoi membri.

Le dispiace di andare in pensione?
Se mi dispiace? Ma quando si è al servizio di Dio, non si vuole occupare un posto! Noi viviamo una missione. Ci affidano una missione. Quando è terminata, la rimettiamo nelle mani di colui che ce l’ha affidata, semplicemente. C’è una differenza tra un capo religioso e un capo politico.

Lei è stato il primo Patriarca d’origine palestinese dai tempi delle crociate: l’essere un Patriarca palestinese cambia qualcosa?
Cambia qualcosa nel senso che la Chiesa ha avuto un pastore scelto tra il suo clero. Avere un Patriarca palestinese in una Chiesa palestinese è un fatto normale, e non straordinario. È la situazione di tutte le chiese del mondo. I pastori sono scelti tra il loro clero e il loro popolo. Quel che è potuto cambiare qui nella nostra situazione, che è una situazione di conflitto, è che i Palestinesi sono da una parte e gli Israeliani dall’altra. Il fatto è che tutti i Palestinesi, Cristiani e Musulmani si sono sentiti appoggiati, hanno sentito che una figura nuova poteva parlare per loro, condividere con loro, e agire per la pace. Ma facendo sempre attenzione. Perché se noi diciamo ai responsabili Israeliani: «Voi siete nel vostro pieno diritto di servire e proteggere il vostro popolo », ai Palestinesi: « Voi siete Palestinesi, voi siete nel vostro pieno diritto di servire e proteggere il vostro popolo», un prete, un vescovo, che sia palestinese o altro, è per tutti. Non è confinato nel suo popolo. Egli è per il suo popolo, ma è nello stesso tempo per ogni persona umana con la quale vive; e qui noi viviamo con due popoli. Dunque la nostra responsabilità come vescovo e come cristiani s’estende e copre e comprende i Palestinesi e gli Israeliani. Ora, i Palestinesi sono gli oppressi, sono sotto occupazione, e noi diciamo: « L’occupazione deve terminare». Noi diciamo agli Israeliani: « Voi siete gli occupanti, e a questa occupazione voi dovete mettere fine».

Quale sarà il Suo ruolo adesso?
Il vescovo ha tre funzioni: santificare, insegnare e governare. Con il pensionamento la funzione di governo passa a un altro; restano le altri due: santificare ed insegnare. Dunque ci saranno ancora tante cose da fare.

Darà alla Sua missione un ruolo più politico?
Non tanto politico, quanto cristiano. Ma un cristiano che metterà il piede nel campo politico. Perché qui la politica è la vita umana. Non è una politica dei partiti di sinistra o di destra, sono delle vite umane che sono minacciate. Che siano palestinesi o israeliani. Sarà dunque la continuazione dell’impegno per ogni persona umana in questo paese, insieme israeliano e palestinese.


Intervista di Marie-Armelle Beaulieu