Flagellazione: il silenzio di chi è abbandonato | Custodia Terrae Sanctae

Flagellazione: il silenzio di chi è abbandonato

Omelia di fra Paolo Messina - Peregrinazione alla Flagellazione (13 marzo 2024)

 

Care sorelle e cari fratelli,

c’è un paradosso grande nella pagina del Vangelo che abbiamo ascoltato. Da un lato, Pilato per ben due volte e pubblicamente afferma: “Non trovo in lui colpa alcuna” (Gv 18,38; 19,4). Egli pronuncia questa frase ponendo un’enfasi particolare sul fatto che “neppure una” colpa può essere imputata a Gesù. Dall’altro lato, Gesù viene rifiutato dal popolo, che preferisce Barabba libero; viene sbeffeggiato dai soldati, viene flagellato. 

Gesù si trova ad affrontare una serie di sofferenze fisiche, psicologiche e spirituali. Ma per tutto il tempo non pronuncia una parola. Giovanni riporta il dialogo tra Gesù e Pilato, avvenuto poco prima della condanna. Le ultime parole di Gesù riguardano la verità: “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (Gv 18,37). Egli parlerà di nuovo dalla croce alla madre e al discepolo prediletto. Da un lato, Pilato non ascolta la voce di Gesù, perché le sue scelte non nascono dalla verità e non può agire secondo verità. Dall’altro, Maria e il discepolo obbediranno all’ultima volontà di Gesù perché conoscono la verità, la seguono e amano Colui che è Verità.

Tra questi due dialoghi troviamo un uomo abbandonato, in silenzio. Il paradosso di cui dicevo all’inizio, tra una condanna ingiusta e una sofferenza così acuta, si manifesta in Gesù in tutta la sua crudeltà. Il giusto per eccellenza non è salvato dalla folla, che auspica la libertà di Barabba. Il giusto, davanti a quella folla, non ha neppure un nome. Lo chiameranno “questo” oppure “malfattore”, “re dei giudei”. Il giusto, senza alcuna colpa, non è protetto da Dio. Un paradosso, certo, che però è il paradosso della sofferenza di ogni uomo e di ogni donna, che vive quei momenti sentendosi abbandonato dagli uomini e talvolta anche da Dio. 

Luisa meritava forse di perdere il suo bambino tanto atteso? Matteo, Gabriele meritavano di nascere con quel disturbo cerebrale così grave? Giovanni meritava la condanna di quel cancro così in giovane età? La lista potrebbe essere lunga, e sono sicuro che ognuno di voi potrebbe scriverne una propria. La sofferenza silenziosa di Gesù ci mette di fronte a questo interrogativo così complesso: “Perché il giusto soffre?”

Gesù accoglie la sofferenza, inflitta da altri uomini, in un silenzio che riempie tutto il racconto. Giovanni lo descrive totalmente abbandonato, in balia delle decisioni di altri: di Pilato prima e della folla poi, e infine dei soldati. Alla condanna della flagellazione, imposta da Pilato, si aggiunge lo scherno dei soldati, la corona di spine, il mantello e ancora altri schiaffi, altra violenza gratuita su un uomo già colpito e sofferente. E Lui non dice nulla, neppure una parola. Non oppone resistenza perché ha aperto il suo orecchio a Dio (Is 50,5). 

Gesù fa sua l’esperienza del servo che vive una relazione quotidiana con Dio. Questa familiarità lo ha reso לִמּוּד, discepolo, capace di imparare da Dio, il quale ogni mattina fa attento il suo orecchio. Gesù è quel discepolo che conosce la parola da rivolgere allo sfiduciato, a colui che è sfinito e stanco. Ma quale parola? Quale discorso? Non c’è nell’esperienza del servo sofferente, descritta da Isaia, nessun proclama. Anzi il prosieguo della sua vita lo mostra vittima di violenza, di aggressione personale, di sputi. Tuttavia, egli non legge questo come un abbandono da parte di Dio. Anzi, proprio la relazione così intima che ha costruito con Lui rende il discepolo certo della protezione del Signore. Il discepolo sa che il Signore “lo aiuterà” (Is 50,7), “che gli sarà vicino colui, che fa giustizia” (Is 50,8). Queste azioni di Dio sono descritte come future. Ma proprio perché certo dell’intervento di Dio, il discepolo ha già consegnato il suo dorso ai flagellatori, le sue guance a chi gli strappava la barba e non ha nascosto il suo volto agli sputi (Is 50,6). Questo ponte tra passata sofferenza e futura salvezza, questo percorso tra l’abbandono degli uomini e l’abbraccio del Padre, è retto dalla fiducia in Dio, dalla certezza nella Sua giustizia, dalla consapevolezza che Lui percorre con noi questa distanza, che a volte è breve, a volte appare senza fine. È la distanza da qui al Calvario, che Gesù compirà con lo stesso sentimento di affidamento al Padre.

Dopo la flagellazione, Pilato presenta nuovamente Gesù alla folla: “Ecco l’uomo” (Gv 19,5). Non più il re dei Giudei, ma un semplice uomo. Nessun riconoscimento della sua messianicità, nessun riferimento al suo essere re, pur di un regno diverso, ma solo un uomo. Eppure, in quella semplice parola “ὁ ἄνθρωπος”, “l’uomo”, si nasconde tutta la verità di Gesù. Lui è quell’uomo che doveva morire, perché secondo le parole di Caifa: “È conveniente che un solo uomo muoia per il popolo” (Gv 18,14). Lui è l’uomo che ha aperto e fatto attento il suo orecchio alle parole del Padre. Lui è l’uomo che ha dato una parola di conforto allo sfiduciato. Lui è quest’uomo e non smette di esserlo nemmeno in quel suo silenzio, con cui si presenta alla folla, davanti a quel popolo che era venuto a salvare e che, invece, lo ha abbandonato.  

“Perché il giusto soffre?”, ci chiedevamo all’inizio. Io non ho la risposta, e credo di non dire un’eresia nell’affermare che neanche la Scrittura ce la dà. Tuttavia, per entrare in questo paradosso ripercorrendo l’esperienza del Servo del Signore e quella di Gesù, possiamo forse comprendere meglio l’esortazione di San Pietro, ascoltata nella seconda lettura: “nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare” (1Pt 4,13). Si tratta, cioè, di comprendere non il “perché” della sofferenza, ma il “come” viverla. Davanti all’uomo che soffre e che si sente abbandonato da tutti, anche da Dio, c’è una sola strada da percorre. Egli non può fuggire dalla sua prova. Ognuno di noi può decidere di compiere questo cammino nella disperazione, nello scoraggiamento, nella paura, nell’isolamento. Oppure può decidere di percorrere quella stessa via sapendo di essere partecipe delle sofferenze di Cristo, non abbandonato dal Padre ma sostenuto da Lui. 

Nel portare la sua sofferenza in silenzio, Gesù manifesta tutta la sua umanità, il paradosso di un Dio che ha scelto di essere uomo, e di condividere dell’umanità anche il dolore, la pena, l’angoscia. È in quel silenzio che lo sentiamo più uomo, più vicino a noi. Il silenzio di chi è abbandonato è il silenzio che ho imparato da Luisa, dai genitori di Matteo, Gabriele, Giovanni. È il silenzio che ci rivela la via per essere come Gesù, chiamati a condividere, come eredità, il suo essere figli, non perché liberi da ogni sofferenza, da ogni male, da ogni tentazione, ma perché partecipi della sua sofferenza. Il silenzio di chi è abbandonato, è quello allora di chi ha avuto il coraggio di fidarsi e di affidarsi al Padre nella sua sofferenza. Abbandonato dagli uomini, ma non da Dio perché suo figlio. Percorriamo anche noi quel ponte che unisce solitudine e salvezza. Quel ponte che si chiama abbandono, che significa lasciarsi cadere nelle braccia del Padre, comunque e per sempre suoi figli.