Dominus Flevit: Il silenzio di chi soffre | Custodia Terrae Sanctae

Dominus Flevit: Il silenzio di chi soffre

Omelia di fra Paolo Messina  - Peregrinazione al Dominus Flevit (28 febbraio 2024)

Carissimi, 

in questo cammino quaresimale, che abbiamo da poco intrapreso, rifletteremo insieme sul silenzio, declinato sotto diverse sfaccettature. Il silenzio può essere un linguaggio potentissimo. Può esprimere gioia, serenità. C’è il silenzio che si fa contemplazione della bellezza. Ma c’è anche un silenzio che nasconde un profondo dolore e un’acuta sofferenza: c’è il silenzio vissuto da chi è ingiustamente condannato e non riesce a fare sentire la sua voce; il silenzio di chi è solo, che diventa quasi un muro impenetrabile al prossimo e difficile da abbattere.

In questo luogo che ricorda il pianto di Gesù mentre sta entrando a Gerusalemme, voglio riflettere sul silenzio di chi soffre. La sofferenza, infatti, si avvolge a volte di un mantello di mutismo. Chi soffre teme di non essere compreso, capito, accolto nel suo dolore, e, spesso, è incapace di esprimere il senso stesso della sua sofferenza. 

Ma Gesù, il vero maestro, proprio da questo luogo ci insegna a come vivere la sofferenza. Quasi in maniera plastica questo santuario ci fa rivivere lo sguardo di Gesù sulla città. Da un lato la grande Gerusalemme, immersa nella sua vita ordinaria, nei suoi rumori quotidiani, ignara del futuro che l’aspetta, inconsapevole di quella sofferenza che da lì a qualche anno dovrà vivere. 

La stessa sofferenza e desolazione che racconta il profeta Geremia nella prima lettura. Ne parla come di una grande calamità; descrive qualcosa di distrutto, ormai andato in frantumi; parla di una piaga, di una ferita profonda. Fuori e dentro la città la stessa devastazione: nello spazio esterno, incustodito e pericoloso, ma anche in quello interno, condiviso e protetto dalle mura cittadine, c’è un’umanità affamata, tormentata dalla spada, incapace di trovare un luogo sicuro per proteggersi e per fuggire da quell’orrore. Orrore di allora, ma orrore anche dei giorni nostri. In un crescendo Geremia, al culmine del suo racconto, narra lo smarrimento anche del profeta e del sacerdote, rappresentanti della parola e della presenza di Dio in mezzo al popolo. Anche loro non sanno cosa dire, come comportarsi. Cercano una risposta per comprendere quello che succede, ma non la trovano. Ogni loro attesa di protezione da parte di Dio, di prosperità, è svanita davanti ad una realtà cruda, che si presenta implacabile davanti a loro. E questa risposta non arriverà. Là dove l’uomo chiude il cuore, Dio non trova spazio. Quando l’uomo è troppo ripiegato su sé stesso e non innalza il suo sguardo al progetto di Dio, prima o poi dovrà fare i conti con questa chiusura e con la sua incapacità di dire “sì” a Dio.

Da una parte, quindi, Gerusalemme e dall’altra Gesù. Luca pone questo breve passaggio che abbiamo letto all’interno del racconto dell’entrata di Gesù a Gerusalemme. L’evangelista ha appena raccontato la gioia del popolo che lo osannava, ma anche l’invidia dei farisei, che chiedono a Gesù di far tacere quella folla. In questo clima di festa, con i discepoli vicino a lui, Gesù alza gli occhi sulla città di Gerusalemme e solo dopo pronuncia le parole che abbiamo ascoltato. In quel lasso di tempo, in cui il suo sguardo si posa su Gerusalemme, trova spazio il silenzio di chi soffre. Noi, magari, immaginiamo il fratello che soffre in silenzio come una persona isolata, solitaria, senza nessuno vicino, che vive da solo le sue preoccupazioni. Ma, più spesso, è l’uomo accanto a me, mentre io faccio festa. È mio fratello e mia sorella, vicino a cui io vivo distratto. Del suo silenzio io non mi accorgo. La sua sofferenza, io non la percepisco. A volte, anzi, alzo la mia voce, in canti di festa, per distrarmi, per non farmi sopraffare dal silenzio di chi adesso sta soffrendo. Eppure, quel silenzio c’è. È il silenzio che pervade le città distrutte dell’Ucraina, mentre tanti sguardi sono girati da un’altra parte. È il silenzio che abita le strade deserte di Gaza, che non possiamo nemmeno immaginare perché neppure lo vediamo. È il silenzio dei tanti innocenti che si trovano a soffrire per la chiusura del cuore dell’uomo, quando questi assolutizza il proprio progetto di vita e non guarda in faccia nessuno per realizzarlo. Sarà la desolazione di Gerusalemme, in quel giorno in cui Gesù sta entrando in città.

Da dove nasce questo dolore e questa sofferenza di Gesù, di cui ci parla il Vangelo? Nasce dalla consapevolezza della cecità spirituale che impedisce agli abitanti della Gerusalemme di allora, ma forse anche di oggi, di percepire quello che accadrà. Il futuro di quella città è nascosto ai loro occhi, e non perché non ci siano i segni: il Messia sta arrivando, si è fatto vicino, dice Luca. Gesù esprime tutta la sua vicinanza e il suo legame alla città: “se tu avessi compreso”, “i tuoi occhi”, “per te verranno giorni”. Con ostinazione ripete “tu”, “tuoi”. Un linguaggio che tradisce prossimità, affetto. 

Lo stesso sentimento si manifesta nel pianto di Gesù. Quel pianto è lo stesso pianto della madre vedova di Nain, che ha perso suo figlio; è il pianto della peccatrice ai piedi di Gesù a casa di Simone il fariseo; è il pianto di coloro che a casa di Giairo, pensano che neppure l’arrivo di Gesù possa cambiare il fatto che la fanciulla ormai è morta. Luca utilizza lo stesso termine per descrivere la loro afflizione.

Cosa cambia la loro sofferenza? Cosa fa cessare il loro pianto? A differenza di Gerusalemme, quelle persone hanno riconosciuto il tempo di grazia della visita di Gesù. Hanno conosciuto e riconosciuto chi avevano davanti. Non così Gerusalemme. La vedova di Nain, la peccatrice, i parenti di Giairo se ne andranno consolati. Gesù invece nel suo pianto e nel suo silenzio entrerà a Gerusalemme. Non pronuncerà nessun’altra parola. Lo ritroveremo nel tempio a scacciare i mercanti e, poi, ad insegnare. Portando con sé, in silenzio, la sofferenza di quell’ingresso. 

È vero quanto dice Madre Anna Maria Cànopi: “Alla sofferenza si addice il silenzio. Silenzio di umiltà di fronte a un mistero che ci supera infinitamente; silenzio di compassione che si fa uno con chi soffre; silenzio di fede che getta nel Signore il proprio affanno”.

Carissimi, come Gesù siamo chiamati a essere ascoltatori compassionevoli di questo silenzio, del silenzio di chi soffre, anche al prezzo di versare le nostre lacrime. La solidarietà che il vangelo ci insegna ci spinge a cercare questo silenzio, non a fuggirlo. Ci induce a prendercene cura e a trasformarlo in un’opportunità di amore e di guarigione interiore. Siamo noi, oggi, chiamati a realizzare il tempo di grazia della visita di Dio come suoi discepoli, come suoi inviati, come suoi servi. Questo cammino di condivisione e di empatia consolerà il fratello e la sorella che soffre, ma farà crescere anche in noi quell’amore che sull’esempio dell’amore Padre è capace di non chiudere il suo sguardo su chi soffre.