Siamo la vigna del Signore | Custodia Terrae Sanctae

Siamo la vigna del Signore

XXVII Domenica TO A

Continua la collaborazione tra VITA TRENTINA  e fr. Francesco Patton, Custode di Terra Santa nella rubrica "In ascolto della Parola". 

Is 5,1-7; Fil 4,6-9; Mt 21,33-43

«Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna». Is 5,1

Ogni buon contadino sa quanto sia triste lavorare una stagione intera, dedicare tempo, premura e sudore al proprio vigneto e non poter raccogliere i frutti sperati, vuoi per la grandine, vuoi per i parassiti, vuoi per l’inclemenza della stagione. È la triste esperienza che Dio fa in relazione al suo popolo e che il profeta Isaia canta: “Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi” (Is 5,7).

Gesù nel vangelo riprende l’immagine del vigneto e racconta un’allegoria dietro la quale si intravede una rilettura e una interpretazione di tutta la storia della salvezza. Sono sottolineate le continue premure di Dio nei confronti del suo popolo e le continue resistenze del popolo stesso. Dietro alle figure dei servitori che il padrone invia ai vignaioli si intravedono i profeti, gli inviati di Dio, che rimangono perlopiù inascoltati. Dietro le figure dei vignaioli si intravedono i capi religiosi e civili del popolo d’Israele, preoccupati (secondo Gesù) di conservare il loro potere piuttosto che di ascoltare i richiami dei profeti. Dietro l’ultimo inviato, il figlio, si intravvede chiaramente lo stesso Gesù, il Figlio del Padre, che viene eliminato nell’assurda illusione di potersi impossessare della vigna. Ma il paradosso del vangelo consiste proprio in quel rovesciamento finale per cui dalla morte del Figlio nasce un allargamento del piano di salvezza: “Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo. Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti” (Mt 21,41.43.). Gli “Atti degli Apostoli” e la “Lettera di San Paolo ai Romani” sono due testi che possono aiutarci a comprendere la realizzazione della parabola della vigna nel primo secolo di cristianesimo, come progressiva espansione dell’annuncio evangelico dall’Israele storico ai popoli pagani, un fatto che dilata il popolo di Dio e lo porta da una dimensione etnica a una dimensione “cattolica”, cioè universale.

Sarebbe comunque un grave sbaglio, per noi cristiani del terzo millennio, ritenerci i sicuri depositari del regno di Dio. Lo è certamente la Chiesa in quanto tale, e lo sarà indefettibilmente fino alla fine dei tempi. Ma le singole chiese, le singole comunità cristiane, le nostre famiglie, ciascuno di noi, lo sarà solo nella misura in cui accoglierà realmente Gesù Cristo e restituirà a Dio, con chiare scelte di vita, i frutti della sua vigna: giustizia, pace, rettitudine, solidarietà, comunione (cfr Rm 14,17). Diversamente anche noi saremo tralci destinati ad essere recisi, vigne che verranno sradicate.

Sarebbe uno sbaglio anche fondare su questa parabola ideologie antiebraiche o atteggiamenti antisemiti; infatti come insegna il documento conciliare “Nostra Aetate” (n. 4) richiamando lo stesso san Paolo: “Essi sono Israeliti e hanno l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen” (Rm 9,4-5).

di fr. Francesco Patton, ofm

Custode di Terra Santa