Un esercizio di resistenza civile | Custodia Terrae Sanctae

Un esercizio di resistenza civile

17 gennaio

Ero tra i 659 Osservatori internazionali accreditati dalla Commissione Elettorale Centrale palestinese alle elezioni del 9 gennaio u.s. in cui è stata eletta la nuova guida dell’Autorità Palestinese, ma più che a sorvegliare le elezioni, ho assistito ad uno straordinario esercizio di responsabilità civile da parte dei palestinesi che vivono nei Territori Occupati. Perché queste elezioni - messo da parte il significato politico di trovare un successore ad Arafat stimato e rispettato da tutti i palestinesi, messa da parte la sfida tra chi garantiva la continuità dell’Autorità Palestinese, Abu Mazen, e chi ne sfidava l’establishment proponendo riforme radicali, Mustafa Barghouti, hanno rappresentato una prova di maturità di un popolo che vive sotto occupazione militare da 37 anni, e che si reca alle urne attraversando checkpoints (posti di blocco stradali), ignorando le provocazioni dei coloni e superando gli ostacoli amministrativi e politici imposti dalle autorità israeliane, in particolare a Gerusalemme.

Le disposizioni per il voto dei palestinesi di Gerusalemme non sono conformi agli standards di elezioni libere, giuste e trasparenti comunica la Commissione Elettorale Centrale palestinese. E questo giudizio viene confermato dall’ex-presidente americano Jimmy Carter, in questi giorni a Gerusalemme per monitorare le elezioni con il National Democratic Institute. Non è stato infatti possibile per la Commissione Elettorale installare i seggi a Gerusalemme Est, annessa da Israele contro il diritto internazionale, né aprirvi centri di registrazione elettorale. Così, dei 120.000 palestinesi di Gerusalemme Est aventi diritto al voto, solamente 5.367 hanno ottenuto il diritto di votare a Gerusalemme, ma non in seggi simili a quelli installati nel resto dei Territori Occupati, bensì in sei uffici postali controllati da personale israeliano. Gli altri palestinesi di Gerusalemme Est che hanno voluto votare, invece, hanno dovuto recarsi oltre i checkpoints ed il Muro di separazione attorno alla Città Santa, spostamento che può durare anche un'ora e più.

Mustafa Barghouti, lo sfidante di Abu Mazen, è stato addirittura arrestato tre volte, ossia tutte le volte che ha voluto fare campagna elettorale a Gerusalemme. E’ stato attaccato o fermato dall’esercito otto volte in questa campagna elettorale, e “arrestato tre volte a Gerusalemme, dice, per impedirmi di parlare di “Iniziativa”, nonostante fossi in possesso di regolari permessi di accesso“ dichiara Barghouti durante un incontro con una delegazione del Parlamento Europeo, a cui ho potuto assistere, celebrata alla vigilia del voto. La candidatura di Barghouti, riconosciuto protagonista della società civile per le sue campagne in difesa della salute e dei diritti civili e politici, ha reso queste elezioni un vero esercizio di democrazia, in quanto gli elettori hanno avuto una vera alternativa al voto. Al Mubadara (Iniziativa in arabo), il partito che ha fondato insieme al defunto grande intellettuale, scrittore e musicista palestinese Edward Said, ha rappresentato l’unica vera opposizione politica a Fatah (Movimento per la Liberazione della Palestina). Abu Mazen ha cambiato tre volte il suo programma elettorale nell’ultima settimana in seguito alle nostre proposte” aggiunge orgoglioso Barghouti. Ed infatti, Mahmoud Abbas, il cui nome di battaglia Abu Mazen, rivolgendosi alla stessa delegazione del Parlamento Europeo a qualche ora dal voto, si è concentrato sulle riforme: “Mi impegno a proseguire nelle riforme finanziarie, amministrative, giudiziarie ed economiche necessarie”.

Gli israeliani sembrano lontani in questi giorni, ed il discorso politico si concentra sul futuro delle istituzioni palestinesi, ovvero di uno Stato che ancora non esiste e che forse esisterà . Anche questo è un segno di maturità, parlare dei propri problemi interni, senza limitarsi a scaricare tutte le responsabilità sugli israeliani. I palestinesi sanno soffrire in silenzio, e sanno parlare del proprio futuro anche se l’82 % di loro non può uscire dalle proprie città e dai propri villaggi, o se circa 10 o 15 mila cittadini della Striscia di Gaza siano stati bloccati al posto di blocco di Rafah per 27 giorni prima di questa giornata elettorale. Alla fine dei conti, il 71% degli aventi diritto al voto (includendo i palestinesi della diaspora degli ultimi anni) si sono registrati nelle liste elettorali, e di questi il 70% è andato a votare. Se consideriamo le difficoltà nella registrazione di una comunità a mobilità ridotta, parzialmente dispersa all’estero e sottoposta ad operazioni militari, dobbiamo riconoscere l’importanza dello sforzo effettuato per questo appuntamento elettorale, durante il quale è stata data la possibilità di votare in seggi ad hoc anche a chi non era ancora registrato.

Molti osservatori le hanno definite le prime vere elezioni democratiche moderne del mondo arabo. E questa è una lezione per tutti quei paesi arabi in cui i monarchi o presidenti sono al potere da decenni, ed in cui le elezioni sono una farsa. E’ un sano schiaffo ai popoli arabi perché si risveglino dal loro torpore feudale. Se i palestinesi hanno praticato e voluto la democrazia in condizioni tanto difficili, dietro cosa si nasconderanno ora i regimi arabi per continuare a giustificarsi?

Io ero di stanza a Nablus, la quarta città dei Territori - nella Cisgiordania settentrionale, tra olivi, scavi romani e colonie israeliane - che fino alla fine dell’anno scorso rimase sotto assedio per mesi interi da parte dell’esercito israeliano, nell’intento di debellare la resistenza all’occupazione. La nostra prima preoccupazione è stata quella di sorvegliare il comportamento dei soldati ai checkpoints, per verificare che permettessero il passaggio. Erano presenti anche degli attivisti israeliani per i diritti umani. Eliezer Moav dell’organizzazione Bâtselem, in particolare, mi insegna come comportarmi con i soldati, ma non riesce a fare liberare un giovane che viene portato via su una jeep con gli occhi bendati al checkpoint di Beit Iba. Un soldato mi si avvicina e si giustifica dicendo che era un attivista di Hamas ricercato, ma Eliezer mi spiega che spesso portano via dei giovani per intimorirli e trasformarli in collaborazionisti. Le cose cambiano quando arriva Amram Mitzna, l’ex leader del partito laburista israeliano che perse l’ultima sfida elettorale con Sharon. Faccio parte di un gruppo di undici deputati della Knesset che fanno campagna contro i checkpoints e sono qui per monitorarli ci racconta. E la sua presenza non si rivela inutile. Ex-comandante dell’esercito israeliano nel distretto di Nablus durante la prima Intifada, è ancora rispettato, e grazie al suo intervento i soldati rilasciano una famiglia rimasta in fermo per due ore per una verifica dei documenti. Storia di ordinaria amministrazione, questa volta con lieto fine!

Il resto della giornata lo passo insieme a due osservatori danesi nei seggi del Campo di rifugiati Askar e nel seggio principale della città vecchia di Nablus. Con mia sorpresa, osservo che il silenzio elettorale è maggiormente rispettato in questo Campo che nel centro di Nablus. L’apparato di Fatah non è ancora abituato a rispettare le regole del gioco, e i suoi attivisti incollano manifesti sulle facciate degli edifici di fronte ai seggi, distribuiscono volantini o accompagnano in automobile i simpatizzanti ai seggi. Lo faccio presente nelle prime ore della giornata elettorale al presidente del seggio 0257, situato nella scuola elementare Al Masri, e quando rientro in serata per assistere allo spoglio, una parte dei manifesti è stata rimossa. Ci sarà campagna il giorno delle elezioni in tutta la Palestina attorno ai seggi, ma dentro di essi un rigore di ferro, da pignoli principianti che fanno le cose seguendo ogni istruzione del manuale. E’ un giorno importante e vogliono fare le cose bene. La presenza straordinaria di donne, dietro il banco delle sezioni elettorali e tra i votanti, è un segnale di forza e coesione importante: ci sentiamo tutti più sereni e protetti dalla loro presenza. C’è spazio anche per la sacra dhiiaafa, l’ospitalità, e noi tutti osservatori che restiamo fino allo spoglio finale riceviamo la salsa di ceci e dolci.

E quando ci chiudiamo dentro nelle sezioni per contare, con due ore di ritardo rispetto al previsto perché Ramallah ha ordinato di lasciare i seggi aperti più a lungo per venire incontro a chi ha incontrato maggiori difficoltà di movimento, siamo tutti infreddoliti, ma emozionati. Nell’aria umida si respira il sentimento di forza e dignità di un popolo che ha reso delle elezioni, impossibili da organizzare, in una opportunità di civile e pacifica resistenza.

Gianluca Solera