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Professioni solenni

Omelia di Fr. Francesco Ielpo in occasione delle Professioni solenni a San Salvatore

2025-10-05


Omelia – XXVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C)

5 ottobre 2025 – Professioni solenni
Ab 1,2-3;2,2-4 – Sal 94 –  2Tm 1,6-8.13-14 – Lc 17,5-10

Carissimi fratelli,

il Signore vi doni la sua pace!

In questa celebrazione, cinque nostri confratelli emettono la loro professione solenne nell’Ordine dei Frati Minori. È un dono immenso per la Chiesa e per la nostra famiglia francescana. A loro, e a ciascuno di noi, desidero oggi consegnare due parole e un verbo che la Liturgia della Parola ci propone: fede, servizio, ravvivare.

  1. «Signore, aumenta la nostra fede»

Il Vangelo ci presenta i discepoli che chiedono a Gesù: «Aumenta la nostra fede». Lo chiedono perché si rendono conto di quanto siano grandi le esigenze del Vangelo: perdonare sempre, amare senza misura, servire senza limiti. Sanno di non bastare a se stessi e per questo invocano il dono della fede.

Ma Gesù risponde in modo sorprendente: non serve tanta fede, basta che sia autentica, come un granello di senape, capace di sradicare un albero dalle radici profonde. Non è questione di quantità, ma di qualità. La fede autentica ti permette di affidarti a Lui con cuore sincero in ogni circostanza della vita.

Lungo tutto il Vangelo di Luca la fede è la porta che apre all’azione salvifica di Dio. Al paralitico, alla peccatrice, alla donna emorroissa, al cieco di Gerico, Gesù ripete quasi come un ritornello: «La tua fede ti ha salvato». Non sono le forze dell’uomo, ma la potenza di Dio che salva, e la fede è lo spazio interiore che permette a Dio di agire.

Carissimi fratelli che oggi professate: la promessa che fate — vivere in obbedienza, senza nulla di proprio e in castità — è umanamente impossibile. Non si può mantenere un tale impegno confidando solo sulle proprie forze. Per questo la prima parola che vi consegno è fede. Ogni giorno, come i discepoli, pregate: «Signore, aumenta la nostra fede». Non abbiate paura di riconoscere la vostra fragilità: la vita consacrata si regge solo su un rapporto vivo, intimo e personale con il Signore. Siate sempre mendicanti di fede. Tutte le crisi nella vita religiosa, infatti, sono, in fondo, crisi di fede.

  1. «Siamo semplicemente servi»

Dopo l’insegnamento sulla fede, Gesù racconta la parabola del servo che, dopo aver lavorato nei campi, rientra a casa e continua a servire. Non è un’immagine per descrivere un Dio esigente e senza cuore, ma per ricordare a noi come deve essere il nostro atteggiamento verso di Lui: disponibilità totale, senza calcoli, senza contratti.

Molti rischiano di concepire il rapporto con Dio come un dare-avere: io prego, io obbedisco, io rinuncio, e in cambio Tu mi dai pace, protezione, premi. Ma il Vangelo è un’altra cosa: non uno scambio, non un contratto a ore, ma una relazione d’amore che non guarda l’orologio o il calendario, che non dice «ho fatto abbastanza, adesso basta».

Il discepolo serve con cuore libero, non per guadagnarsi qualcosa, ma perché ha scoperto la bellezza di essere figlio amato. È questo che ci rende liberi: non aspettarci riconoscimenti, non vantare diritti, ma dire semplicemente: «Ho fatto ciò che dovevo fare». Non si tratta di essere servi inutili: il nostro servizio è prezioso! Ma siamo semplicemente servi, che trovano la loro gioia nell’essere come Gesù, che «non è venuto per farsi servire, ma per servire».

Ecco la seconda parola che vi consegno: servizio. Nel cammino della vita religiosa arriveranno tentazioni di potere, prestigio, titoli, incarichi. Non lasciate che il cuore si appesantisca. Siate servi lieti, grati a Dio di avervi dato l’occasione di amare, di donare, di spendervi per gli altri, anche nel nascondimento.

  1. «Ravviva il dono di Dio che è in te»

La terza parola la rivolgo a noi tutti, frati già professi. Oggi questi cinque giovani consegnano la loro vita al Signore mettendo le loro mani nelle mie, e quindi nelle mani dell’Ordine e della Chiesa. Essi ci dicono: «ci fidiamo di voi, vogliamo camminare insieme a questa fraternità». È una grande responsabilità.

San Paolo scrive a Timoteo: «Ravviva il dono di Dio che è in te mediante l’imposizione delle mani» (2Tm 1,6). Ravvivare significa attizzare il fuoco, non lasciare che la cenere spenga la fiamma. Nella vita consacrata è facile che la routine, le abitudini, le difficoltà quotidiane coprano la freschezza del primo amore. Ma sotto la cenere, il fuoco c’è sempre.

Il dono della vocazione non va custodito con nostalgia, come chi guarda vecchie fotografie. Va ravvivato ogni giorno, con la preghiera, con la fraternità, con la missione. E se il cuore si raffredda, se prevale la stanchezza, se ci si sente appesantiti, ricordiamo: il fuoco di Dio è vivo, basta riattizzarlo.

Ecco la terza parola: ravvivare. Non siamo mai arrivati. La Regola che abbiamo professato è sempre insieme realtà e profezia, possibile e impossibile, “già e non ancora”. Per questo ci spinge sempre a ricominciare, a non fermarci, a non sentirci a posto. Il dono di cinque nuovi fratelli sia per tutti noi stimolo e invito a ravvivare il dono della nostra vocazione.

Carissimi fratelli, oggi il Signore ci affida un grande dono: cinque nuovi fratelli che professano per sempre di seguire il Vangelo alla maniera di Francesco. A loro, e a noi, consegno tre parole: fede, perché senza di essa nulla è possibile; servizio, perché il discepolo è colui che serve come Gesù; ravvivare, perché la fiamma della vocazione deve essere alimentata ogni giorno.

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