Carissimi fratelli e sorelle,
il Signore vi dia pace.
Le riflessioni di questi tre giorni sono una specie di trittico: le ho concepite durante alcuni giorni di ritiro a Cafarnao, le ho elaborate a Gerusalemme e in questi giorni cerco di condividerle con voi.
Il primo quadro (quello di stasera) è dedicato a riflettere sulla apparente banalità del male e del peccato, il secondo quadro, quello di domai sera, sarà dedicato a riflettere sul caro prezzo della riconciliazione, e il terzo ed ultimo quadro riguarderà il costo personale della conversione.
La banalità del male, che si trasforma poi nella tragedia del peccato, è terribile proprio perché ha a che fare più con la mancanza di responsabilità che con la cattiveria in sé e per sé. È il prodotto del modo di agire di persone normalissime che nemmeno si rendono conto di ciò che fanno. Il male, il peccato, è banale nella sua origine ma, purtroppo, è poi terribile nelle sue conseguenze.
C’è un’esperienza comune a tutti noi che ci fa comprendere come il brano della Genesi più che parlare di ciò che sta all’inizio della storia dell’umanità stia parlando di ciò che è all’origine di certi nostri comportamenti che hanno poi ripercussioni gravi, talvolta tragiche, sull’esistenza delle altre persone. È l’esperienza che facciamo da bambini, che ci fa riscoprire che Adamo ed Eva sono ben vivi dentro di noi.
Quante volte è successo che, quando eravamo piccoli, abbiamo combinato qualche malanno, cose di poco conto come rompere un vaso lasciandolo cadere, e appena i genitori hanno chiesto: “Chi è stato?” la prima risposta è stata: “Io no”, poi magari ci siamo girati e abbiamo incolpato il nostro fratello o la nostra sorella, con l’intento di deviare un rimprovero o un castigo. Qualche volta abbiamo combinato anche guai peggiori, mettendo a rischio la salute degli altri, senza cattiveria, senza pensarci, per pura superficialità. Ricordo che una volta da bambino ho rotto i freni della bicicletta di mio zio e per paura di essere rimproverato non ho detto niente. Il giorno dopo mio zio ha preso la bici e si è schiantato contro un marciapiede, grazie a Dio prese solo una botta, ma avrebbe potuto farsi molto male. Il tutto per un atto di superficialità che avevo commesso io.
A rileggere il racconto non vediamo malizia in Adamo e Eva, ma certo vediamo la stessa superficialità che abbiamo constatato nel nostro agire da bambini, un agire che, lo abbiamo visto, quando diventiamo adulti, può portare a conseguenze terribili e tragiche come nel caso di Eichmann.
La reazione naturale davanti al proprio sbaglio anche per Adamo ed Eva diventa quella di scaricare su qualcun altro la responsabilità di ciò che hanno fatto. Anziché dire: “Sono stato io” l’uomo dice: “è stata la donna che mi hai posto accanto”. E questo è un modo davvero infantile di scaricare la colpa contemporaneamente sulla donna e su Dio!
A sua volta la donna scarica la colpa sul serpente, e non dice “Mi sono lasciata ingannare” ma in modo ancora una volta deresponsabilizzante: “Il serpente mi ha ingannata”.
La vicenda di Caino e Abele ci dirà che a non funzionare più non è solo la relazione tra l’uomo e la donna, tra il marito e la moglie, ma anche la relazione tra fratelli, e il fratello arriverà a dare la morte al fratello e a nascondersi ancora una volta dietro la mancanza di responsabilità e dietro la banalizzazione degli eventi. Alla domanda di Dio: “Dov’è tuo fratello?”, Caino risponderà: “Sono forse io il custode di mio fratello?”.
E questo modello di banalizzazione del male attraverso il rifiuto di assumersi le responsabilità delle proprie scelte e delle proprie azioni proseguirà lungo la storia e non riguarderà solo gente semplice ma anche gente con responsabilità pubblica. Il re ideale e idealizzato, il prescelto e unto per guidare Israele, Davide, l’antenato del Messia, agirà allo stesso modo. In modo superficiale commetterà adulterio con la moglie di un suo ufficiale Uria l’Hittita e, per non essere scoperto, lo farà uccidere in battaglia e cercherà di tenere tutto nascosto fin quando non sarà l’uomo di Dio, il profeta Natan a smascherarlo e a fargli assumere la responsabilità delle proprie azioni.
Quello che la tradizione ha voluto chiamare “buon ladrone” e l’apocrifo di Nicodemo chiamerà Disma e il cantautore Fabrizio De André chiamerà Tito era un criminale e riconosce di essere condannato giustamente, cioè si assume la responsabilità del male che ha commesso, fa l’opposto di quello che hanno fatto i progenitori e fa l’opposto anche di quello che faranno i criminali e gli Eichmann di cui è piena la storia.
Oltre a riconoscere le proprie colpe e assumersi la responsabilità delle proprie azioni, il Buon Ladrone si mette con fiducia nelle mani di Gesù, cosa che gli aprirà le porte del Paradiso.
Già il brano della Genesi che abbiamo letto stasera ci aiuta a capire in cosa è consistito questo primo peccato, questa apertura della libertà umana al male anziché al bene. È consistito in un atto di sfiducia dell’umanità delle origini nei confronti di Dio.
Abbiamo sentito l’interpretazione che lo stesso san Francesco dà di questo primo peccato: “Disse il Signore a Adamo: «Mangia pure di qualunque albero, ma dell'albero della scienza del bene e del male non ne mangiare» (Gen 2,16-17). Adamo poteva dunque mangiare di qualunque albero del Paradiso, perché, fino a quando non contravvenne all'obbedienza, non peccò” (Amm II,1-2: FF 146).
Dopo aver creato l’uomo, dopo avergli donato un ambiente bello e armonioso in cui vivere, Dio dà all’uomo un comando, che ha come unico scopo quello di educare l’uomo a fidarsi, perché possa vivere e possa vivere in modo pieno dentro il proprio limite. Dio non mette lacci alla libertà dell’uomo, ma prova a educare la libertà dell’uomo perché l’uomo riesca a vivere fidandosi e in questo modo orienti sempre più la propria libertà alla ricerca del bene.
Se vogliamo la vita e la vogliamo in abbondanza bisogna che impariamo a fidarci della parola di Gesù anche quando ci sembra che ci siano proposte meno impegnative, più facili e più immediatamente gratificanti. Nelle scorciatoie alla felicità c’è sempre un inganno.
In realtà Maria corrisponde esattamente a questa descrizione: Maria – dirà s. Agostino (Serm. 72/A,7) – non è madre di Gesù solo perché lo ha generato fisicamente, ma gli è ancor di più madre proprio perché da un lato ha sempre fatto la volontà del Padre che è nei cieli, dall’altro si è fidata fino in fondo di suo Figlio, si è fidata di Lui così tanto da essere dichiarata “beata” per aver creduto che la Parola di Dio si realizza (Lc 1,45); si è fidata di Lui così tanto da dire ai servi a Cana: “Qualsiasi cosa Gesù vi dirà, voi fatela” (Gv 2,5); si è fidata così tanto di Lui da meritare di essere la prima a poterlo incontrare risorto, come dice sant’Ambrogio: “Per prima lo ha visto perché per prima ha creduto in Lui fino in fondo” (De Virginitate, III,14).
Chiediamo di conseguenza la grazia di assumerci la responsabilità del male commesso, chiamando per nome i nostri peccati e affidandoli al Signore e alla sua misericordia.
Chiediamo infine la grazia di fidarci di Dio e della sua Parola, di Gesù e del suo Vangelo, in modo tale da evitare di essere troppo facilmente sedotti e imbrogliati dell’antico Serpente, il Diavolo, che anche oggi va in giro cercando chi ingannare (cfr. 1 Pt 5,9).