Violenze contro i Cristiani di Maghar | Custodia Terrae Sanctae

Violenze contro i Cristiani di Maghar

Scrivo oggi (14 febbraio 2005) per voi questa cronaca, e mi accorgo che il soggetto è lo stesso che se avessi scritto esattamente quindici giorni fa, cioè la visita a Maghar. Si, perché io ero a Maghar il 29 e 30 gennaio, per una festa di Battesimo. E ci sono tornata ieri, 13 febbraio per tutt’altri motivi! Un’opportunità felice mi aveva permesso di vivere due giorni in una famiglia araba, dove era ospite una coppia di italiani, e che era tutta in festa per il Battesimo di un bimbetto - primogenito - di circa 2 anni, che avrebbe preso il nome del padre. Tradizioni etniche e inculturamento religioso (la famiglia è cristiana di rito melchita) per me tutte da scoprire. Ma la scoperta grande – cui frettolosamente avevo fatto partecipe alcuni di voi – era stata la serenità del luogo. Finalmente un posto che sembrava senza troppe tensioni, in cui la gente convive mescolando alcune parole ebraiche all’arabo, in un posto sereno (Maghar è un grande paese – circa 19.000 persone – adagiato su una collina a qualche chilometro da Nazareth, la cui popolazione è divisa in cristiani – la parte bassa del paese, quasi 4000 persone, il 23% del totale – i musulmani, 19%, i drusi, 58%, nella parte alta del paese); un paese che, pur non con i nostri standard, dà l’impressione di operosità e di un certo benessere.

L’esserci stata in quella precisa occasione, aveva permesso di conoscere il parroco, melchita, una figura splendida che mi ha richiamato fortemente don Mazzolari, così come era stata proposto in quel film-documentario di qualche tempo fa alla Tv. Ed eravamo anche andati a salutare le Suore, perché i giovani della parrocchia erano orgogliosi di mostrarci il centro parrocchiale frequentato settimanalmente da più di mille ragazzini anche perché è fornito di un grande locale ad uso biblioteca dove possono trovare libri adatti per le ricerche scolastiche. Avevamo visitato queste “aule” grandi e fitte di tavolini come le nostre antiche scuole: povere, ma ordinate, con grandi lavagne, cartelloni colorati, cartine geografiche… Sono giovani universitari che passano qui gran parte del loro tempo, impegnati nel catechismo, ma anche – appunto – nel sostegno, ascolto, aiuto a quanti vengono qui anche solo per cercare dei libri. Al piano superiore l’abitazione delle Suore: tre donne molto semplici, cordialissime, una di loro parla bene l’italiano, che ci hanno spiegato quanto ci sia da fare, e della contentezza di vedere arrivare fin lì gente “pellegrina”, e della gran soddisfazione di lavorare per questa parrocchia che - per la figura del parroco e l’aiuto di tanti e qualificati giovani - le pone un po’ al centro di un impegno pastorale ricco di gratificazione e… di fatica.

Una bellissima esperienza e, pur nella confusione del rientro, ne avevo fatto partecipi alcuni di voi, promettendo di scrivervene più dettagliatamente la cronaca.
Questo era Maghar: ci siamo tornati ieri per portare la nostra solidarietà alla famiglia dove ero ospitata, alle Suore, e dove abbiamo atteso che il parroco terminasse l’ennesimo incontro per salutarlo, stanco, stanchissimo “sono su questi piedi da tre giorni e due notti, scusate, ma sono proprio stanco”. Questo è Maghar, la sera di domenica 13 febbraio: forse questa notte ci sarà un po’ di tranquillità, perché si è raggiunto l’accordo che i cristiani rimasti (non più di 500, quasi tutti uomini) faranno gruppi di dieci persone per vigilare insieme ad ogni posto di blocco organizzato dalla polizia, per dissuadere i drusi dall’invadere ancora una volta il loro quartiere. Ci è sembrato un buon accordo, soprattutto perché questo potrebbe aiutare la polizia a fare il proprio dovere.

La cronaca di questo cambiamento comincia con un allarme sussurrato durante la processione quaresimale nella Basilica del Santo Sepolcro, sabato. “A Maghar stanno bruciano il quartiere cristiano”, “A Maghar? La Maghar del Battesimo?” “Si, i drusi hanno invaso la parte cristiana e stanno bruciano le auto per le strade, le case; i negozi. Con i sassi rompono i vetri, anche della chiesa, il parroco sta cercando di fare qualcosa…” Le prime immagini che mi vengono alla mente sono quelle di un grande, lungo paese bianco adagiato sulla collina, della strada che ho percorso a piedi almeno per due andirivieni dalla casa ospitante alla chiesa; della chiesa che la domenica mattina era gremita all’inverosimile di giovani, uomini, donne, tutti impegnati gioiosamente a partecipare ai tanti canti richiesti dalla Messa in rito melchita. Penso a quelle donne che, dopo la Messa, sono venute in chiesa a “presentare” i loro bambini nati da poco, e al parroco, che con ognuna ha pregato, poi ha preso in braccio il bimbo e l’ha portato all’altare, dove ha pregato ancora, per poi riconsegnarlo alla mamma, con gesti di tenerezza e di augurio. Dove sono quelle donne? Quei bambini? Cosa vuol dire “stanno bruciano le case”? Dov’è la gente? Seguo la processione, e intanto mi accorgo che, in virtù di una breve visita, io conosco quel posto, quelle strade; conosco la strada che dalla chiesa sale alla parte alta del quartiere abitato dai cristiani; mi ricordo delle macchine posteggiate lungo la strada; dei bambini che sono scesi dall’autobus vicino alla chiesa; penso alla gente che mi ha ospitato, alla loro grande famiglia… Io conosco quella gente. Sta succedendo, adesso, che stanno bruciano le case di gente che io conosco, stanno distruggendo negozi che servono alla loro economia, alla loro vita. Non sta capitando in un posto sconosciuto, è qui e adesso: qui in quella Maghar che avevo visto così bella, in questo stesso momento in cui io sono qui e dovrei pregare. Non sta capitando “alle persone”, ma a quelle persone che io ho conosciuto, ho visto, ho salutato per strada.

Quante volte ci si chiede, mi sono chiesta, “e se questo che leggo succedesse qui e adesso, a qualcuno che conosco”? Sta, oggi, succedendo a Maghar.
La sera vedo la notizia al telegiornale: la gente continua a tirare sassi nonostante due auto della polizia. La distruzione che si vede quando la telecamera si sposta è tale che quelle due auto con i poliziotti a bordo sembrano proprio stonate. Sì, stanno dicendo che i drusi hanno attaccato i cristiani, non si sa perché; stanno dicendo che hanno incendiato le due farmacie, alcuni negozi – intanto le immagini seguono il dettato – e alcune auto; stanno dicendo che non è chiaro se questo finirà, e che è arrivata la polizia. È arrivata la polizia? Ma perché, cosa aspettava ad arrivare? Se questa distruzione è cominciata da ieri perché “sta arrivando” la polizia? Gran brutta cosa non capire la lingua quando stanno devastando il paese dove sei stata ospite due giorni e che ti era sembrato tanto bello e in pace! Per associazione d’idee rivedo… la signora che saltellava su un solo stivale alla Malpensa. I poliziotti le avevano chiesto di togliersi gli stivali e stavano controllando il tacco di quello già tolto quando lei ha detto di non riuscire a sganciare la chiusura dell’altro. Sono arrivati i rinforzi, immediatamente, e un buon numero di militi hanno circondato la signora, premurosi ma decisi a farle togliere lo stivale, che ha opposto fiera resistenza per cui, saltellando, la poveretta ha dovuto seguire la fila dei poliziotti in altro luogo… Un servizio di sicurezza “sicuro”, certo, affidabile, pronto ad intervenire in numero e forze sufficienti a togliere uno stivale… dov’è adesso? Ci sono da proteggere bambini, donne, anziani, un intero quartiere (quattromila persone) di uomini che lavorano per la prosperità delle proprie famiglie e del proprio paese; ci sono da proteggere strade, case, negozi, auto, strumenti di lavoro …importanti almeno quanto …uno stivale! Pensieri che accompagnano la notte, che si ritrovano al mattino dopo. Come va a Maghar? Non è finita, stanno dicendo al notiziario del mattino. Vuol dire che hanno continuato tutta la notte? Il radiogiornale parla dello sconcerto per il mancato intervento della polizia, impossibilitata ad arrivare sul posto perché i drusi hanno versato molto olio per la strada impedendo alle auto di entrare in paese.

Vado alla Messa delle 8,30 al Sepolcro: fa parte di quei rituali che mi incuriosiscono perché questa è la mia prima Quaresima qui. Dopo la Messa, mi propongono di andare a Maghar! Non sto neppure a valutarne l’opportunità, accetto. Mentre torno a casa, mi accorgo che sto camminando per altre strade e guardando altre persone: sono le strade e le persone di Maghar, e sono contenta dell’opportunità di andare da loro, di essere là appena dopo e mentre loro stanno vivendo questa cosa orribile. Voglio vedere, voglio vedere loro, ripercorrere quella strada… Partiamo all’una dal convento di San Salvatore: il Segretario custodiale, due frati e io. Il viaggio sembra breve, e in un’ora e mezza siamo a Nazareth, in una bella casa, abitata da una giovane coppia: qui sono ospitati la famiglia del piccolo che è stato battezzato quindici giorni fa e altri fratelli della padrona di casa. Li riconosco e i visi tirati, gli occhi stanchi, mi fanno pensare a un tempo non remoto, quando li ho visti ballare in circolo, con i bambini sulle spalle, nella gioia di una festa di famiglia… Parla quasi solo il padrone di casa: lui abita qui, e questa distanza gli permette il lusso di arrabbiarsi, di chiedersi il perché nessuno è andato in soccorso di un’intera popolazione invasa da un’orda di drusi arrabbiati per un motivo che si rivelerà ben presto pretestuoso e oggi, addirittura, inventato da un ragazzetto druso di sedici anni e mezzo! Lui abita qui e può permetterli il lusso di arrabbiarsi: arrabbiarsi è già una reazione. Gli altri non ci riescono: sono stati umiliati, costretti alla fuga, non dormono da due notti, non hanno null’altro che quanto indossano e devono pensare alle donne, ai bambini… È come se si tenessero aggrappati a questo dovere per non soccombere alla catastrofe, ma questo li svuota, li rende come incapaci di reazione: le forze che hanno ancora e che comunque devono trovare in sè stessi hanno altro scopi.
Bisogna andare a comperare qualche cosa per vestirsi, bisogna ricuperare notizie sui familiari che mancano, bisogna attrezzarsi per stare qui, quanto tempo? E bisogna raccontare quello che è successo, perchè si deve sapere, perchè – forse – raccontandolo, lo si rende credibile. Ecco, così mi sono sembrati: uomini umiliati che raccontavano con stupore quello che era successo, che sapeva di incredibile, di assurdo, ma era capitato a loro e loro erano lì a testimoniarlo.

Il salotto dove ci accolgono viene piano piano invaso da una quindicina di parenti stretti, bimbi compresi. I più piccoli si addormentano e vengono portati altrove a dormire; i più grandicelli se ne stanno lì, in mezzo agli adulti, quasi avessero il bisogno fisico di un’atmosfera protettiva. Una bimbetta, entrando, ha creato un momento di ilarità per aver chiesto “lei è drusa?” indicando una donna presente in casa. Raccontano. Cose allucinanti. Soprattutto la solitudine in cui sono stati lasciati dalla polizia. “Ho telefonato ai pompieri, ma mi hanno detto di aver ricevuto l’ordine di non muoversi”, e io che mi devo far tradurre tutto mi vergogno di aver voluto soddisfare una curiosità! I telefonini sono nelle mani, nervose, degli uomini. Suonano spesso, ma è quasi solo per aggiungere cattive notizie. Eppure ogni volta viene risposto con una velocità fulminea: attraverso il telefono si spera di sapere dove sono rifugiati i parenti dei quali non si sa più niente, di sapere se i genitori stiano davvero arrivando lì, quanto sia danneggiata la casa in paese e soprattutto se non sia stata distrutta dal fuoco; se il temerario che è voluto tornare in paese a prendere alcuni effetti personali ci sia riuscito e comunque stia salvo da qualche parte. È tutto un intrecciarsi di notizie, per aggiornare noi su quanto successo da venerdì ad oggi e per aggiornarsi di quanto sta succedendo via via. Traducono per me, per noi che non capiamo l’arabo, e io mi chiedo se non stia inventandomi tutto: siamo a Maghar, in una ridente cittadina della Galilea, dove quindici giorni fà ho partecipato con ammirazione ad una Messa in un clima festoso…

Finalmente arrivano i genitori: la famiglia è parzialmente riunita con la presenza del padre e della madre. Aggiornano sulla situazione della nonna che fino all’ultimo si era opposta a lasciare la casa. Il padre sgrida un parente per aver esitato ad abbandonare casa. E io penso a… mio fratello! Se succedesse mai una cosa del genere e dovesse prendere in considerazione di lasciare ai vandali la casa… Non è possibile pensare una cosa del genere, ma qui, a tre ore di volo dall’Italia, ben più di tremila cristiani hanno di fatto abbandonato le proprie abitazioni, terrorizzati da una distruzione scatenata da concittadini diversi da loro. Intanto, dopo averci offerto una bibita, ci offrono della frutta: è preparata pronta da mangiare – lavata, fresca, le arance sbucciate – su di un vassoio. La squisitezza dell’ospitalità araba commuove. Si stanno contando i danni (tre auto, forse quattro completamente distrutte, le case saccheggiate, …) e si viene invitati a considerarli fortunati perchè sono quasi tutti raccolti presso parenti; si parla di difficoltà per la ripresa del lavoro, della scuola, si prospetta anche – seriamente – l’abbandono del paese e l’emigrazione, e ci viene offerto un vassoio di frutta che esalta la bellezza e la fecondità di questa terra amata.

Andiamo a Maghar, per visitare le Suore, il parroco se riusciremo a vederlo… È un paese vuoto, già la prima periferia è vuota di persone e di auto, le finestre delle case sono chiuse. La distruzione inizia in modo crescente a mano a mano che ci avviciniamo alla chiesa: auto rovesciate, bruciate, negozi come caverne nere dai quali esce ancora fumo, tante case hanno segni di incendio e fra queste la casa dove quindici giorni fa, con cortese, ferma insistenza, ci invitarono a prendere un caffè: le finestre di quella stanza sono buchi neri e i segni del fuoco che salgono dal piano terra continuano fino al piano che le sovrasta. Continuiamo a salire, e lo spettacolo è impressionante, ovunque sassi, mattoni rotti, vetri, tanti vetri, resti di incendio e auto bruciate. Passiamo davanti alla casa dove ero ospitata: le finestre sono state rotte, ma non c’è segno di incendio, ma passando sul retro vediamo un cortile – la casa di parenti – con auto bruciate, e moltissimi danni (anche incendi?, non si capisce). È una cosa terribile dover guardare questa distruzione perchè non riesco a dissociarla dalle persone, non riesco a vederla legata solo alle cose. Certo, sono fortunati perchè sono vivi, ma che vita è? Sono fortunati perchè si stanno raggruppando dai parenti, ma perchè? Sono fortunati tutti quanti perchè non c’è stato nessun morto, ma perchè tanto dolore? Una casa non è solo un insieme ordinato di mattoni: è vita, ricordi, progetti; un arnese di lavoro non è solo legno e ferro, ma intelligenza, pane, futuro… Perchè quei bimbi muti che non staccano gli occhi dai genitori, che sorridono appena mentre salutano, grati perchè vedono qualcuno che arriva da fuori, e poi stanno lì, immobili, aggrappati alla sedia, con gli occhi che girano dall’uno all’altro in attesa che venga reso esplicito quello che si trasmette col telefonino? Non è vita questa. Né per loro né per gli adulti.

Ritorniamo alla chiesa: le finestre sono rotte, ma non è stata danneggiata oltre. Mons. Giacinto MARCUZZO ha celebrato qui domenica mattina, presenti un centinaio di persone, tra le quali un gruppo di dieci Italiani presenti a Nazareth con un’ONG. Qui incontriamo un prete melchita insieme al parroco francescano di Cana. Anche lui ha dato ospitalità ad alcuni fuggitivi. I cristiani qui attorno si sono prestati immediatamente ad accogliere le persone che cercavano rifugio. Anche alcuni beduini hanno offerto ospitalità. Tutti sono preoccupati per i bambini: impossibile proteggerli dallo spavento causato dalla distruzione, dalla fuga, dal ricovero presso gente a volte estranea alla famiglia… Nella strada di fianco alla chiesa c’è un’auto con tutti i vetri rotti: “Ecco dove mio padre l’aveva portata! Mi ha detto di averla portata vicino alla chiesa, è qui…”
Andiamo a salutare le suore e ci raggiungono alcuni giovani: raccontano e io faccio fatica a credere a quanto dicono: “Sono entrati in casa e davanti a tutti hanno rotto il computer, il televisore, … poi sono scesi e hanno incendiato le due auto sotto casa e si sono allontanati. Siamo corsi per spegnere l’incendio, con i secchi, ma la polizia ci ha lanciato due bombe di gas lacrimogeni e siamo dovuti rientrare”. “Sono entrati in pasticceria, hanno rotto tutto, poi si sono messi a mangiare dei dolci. Ridevano. I poliziotti mangiavano i dolci insieme a loro e ridevano”. “Ho chiamato i pompieri. Ho telefonato fino a quando hanno risposto, ma hanno detto che non avevano l’ordine di intervenire.” “Hanno bruciato 70 auto, questo è il conto di quelle bruciate, poi ci sono le altre.” “Non sono riusciti a forzare una saracinesca, allora hanno fatto un buco nel muro e attraverso quello hanno buttato dentro le torce accese.” “Qui di fronte un cristiano aveva un negozietto piccolo. Si andava lì a fare la spesa per aiutarlo, anche se non sempre ha tutto quello che si cerca. Hanno bruciato tutto. Non c’è più niente. Non sappiamo dove è la sua famiglia. Lui è rimasto, ma è come morto”.

Mentre scendiamo le scale incontriamo il parroco. Di nuovo mi viene in mente il don Mazzolari della Tv. È distrutto. Parla in francese come se si rifugiasse in una lingua altra, al riparo di tutto quello che ha dovuto mediare in questi giorni (“I drusi sono sempre venuti a cercare lui quando avevano delle liti fra loro, lui è sempre stato a disposizione di tutti” mi aveva appena detto una suora). “Vado a mangiare qualche cosa, sono stanco, scusatemi, ma sono tre giorni e due notti che non chiudo occhio, non ho mai mangiato” e poi ci dice “Pregate per noi” salendo faticosamente le scale.
Dal cortile della chiesa una decina di uomini sono pronti per andare presso il posto di blocco loro assegnato: vigileranno insieme alla polizia, durante la notte.
La luce dei fari fa brillare le schegge di vetro di cui sono ricoperte le strade. Scendiamo piano lasciando alle spalle una città buia, morta.
Chi sono i Drusi? La prima volta che sentii parlare di loro, qui, fu ad un posto di blocco. Mi dissero che bisogna essere particolarmente cauti e attenti se c’è un soldato druso. È gente che ha scelto di stare con chi comanda, e – si sa – a volte, in questi casi, si è “più papalini del papa”: ecco, pare che siano così. Sono quasi tutti nell’esercito, perchè questo è la loro più grande risorsa, non avendo molte altre fonti di reddito. Presi in blocco sono, quindi, poco scolarizzati, dato che si entra nell’esercito a 18 anni. È facile, poi, esaltarsi e credere nella forza come unico mezzo di rapportarsi agli altri.

Se a questo si aggiunge che possono tenersi le armi in casa si fa in fretta ad avere un esercito che può scatenare una guerra civile per qualunque pretesto, tanto più contro della gente che ha scelto di non fare il servizio militare e che quindi si sa che è disarmata e che non può armarsi. Il loro credo religioso deriva dall’islam, dal quale accettano Maometto come uno dei profeti, ma non ne so molto. Ho capito che non vanno molto d’accordo con i musulmani, rispetto ai quali sono degli eretici; il loro fondatore arrivava dall’Egitto. Sono, in Israele e nei Paesi vicini – Libano, Giordania, Siria – una minoranza chiusa, che si schiera in ogni Stato con chi è al potere. Dei cristiani invidiano un po’ tutto: il grado d’istruzione soprattutto (un arabo cristiano è generalmente molto scolarizzato), l’intraprendenza negli affari, l’abilità nei lavori artigianali, ecc… Non so quanto questi spieghi le cose, ma forse non c’è molto da spiegare. Se mai avessi qualche piccola remora a favore della guerra, vedere la distruzione di un paese fa sparire anche quella. Non ci sono parole, né linguaggi né silenzi, di fronte a quello che si vede a Maghar, e le immagini non insegnano nulla. La guerra è un assurdo. Va bandita dal vocabolario, cancellata in ogni riferimento che la possa richiamare. Non ci sono giustificazione. Basta. Mai più.
Volevo raccontarvi di come sono stata ospitata due giorni in una bella cittadina della Galilea, Maghar, in occasione di un Battesimo in rito melchita, quindici giorni fa…. Non l’ho fatto subito e adesso scrivo in tutta fretta una cronaca che è tutt’altro. Ma questa è oggi Maghar, dove quindici giorni fa era un giorno di festa…
Mi sembra sia trascorso un tempo lunghissimo da sabato pomeriggio a oggi: troppe cose sono successe, e così inverosimili che, come fanno le persone incontrate a Maghar, devo raccontarle per rendermi conto di averle viste davvero… Raccontare, ricordare… Quanta poca memoria abbiamo se dobbiamo ancora raccontare e ricordare distruzioni del genere?

Irene BOSCHETTI
Volontaria in Segreteria custodiale