Sir 50,1. 3-7; Sal 15,1-2.5.7-8.11; Gal 6, 14-18; Mt 11, 25-30
Papa Francesco in “Evangelii Gaudium” suggerisce che le nostre omelie dovrebbero contenere un’idea, un’immagine e un sentimento (EG 157).
Come ha evidenziato papa Francesco nell’Enciclica pubblicata ieri ad Assisi questa idea dell’essere “fratelli tutti” è una idea così forte e così illuminante che cambia il nostro modo di guardarci reciprocamente e di entrare in relazione gli uni con gli altri.
Questa idea è talmente forte che cambia il modo di vedere non solo le relazioni tra le persone ma anche il modo di organizzare la società e l’economia, le relazioni tra i popoli e gli Stati, quelle tra le Chiese e le religioni del mondo. Cambia il modo di risolvere i problemi e i conflitti che sorgono tra le persone, tra i popoli e tra le religioni.
Ecco il mistero rivelato al piccolo Francesco, il mistero della paternità di Dio, da cui discende il dono dell’essere tutti fratelli e sorelle. Questo è ciò che è stato donato anche a noi, per pura grazia, come vocazione. È ciò che dovrebbe impegnarci costantemente, per cooperare alla nascita di quella che il santo papa Paolo VI chiamava “la civiltà dell’amore”.
È l’immagine di Francesco che ripara e ricostruisce la Chiesa, che richiama il colloquio del Crocifisso di san Damiano col giovane Francesco, nella piccola chiesa diroccata fuori le mura di Assisi: “Francesco, non vedi che la mia casa sta cadendo? Va’ dunque e restaurala per me” (3Com 13: FF 1411).
Da quel momento Francesco si sente ferito dall’amore del Cristo crocifisso e al tempo stesso avverte di avere un compito, una vocazione, una missione: quella di riparare la Chiesa. Lo fa all’inizio con ingenuità, riparando edifici, lo farà sempre più con una testimonianza esemplare di vita evangelica, con un atteggiamento che oggi definiremmo ecumenico, con un approccio sempre costruttivo a quelli che sono i problemi della Chiesa, lo farà cioè con amore.
Se Cristo in croce ha versato il suo sangue per le moltitudini, cioè per l’umanità intera, noi siamo chiamati a fare tutto quello che possiamo “per attirare tutti al suo amore” (Pater 5: FF 270) e favorire tutto ciò che riconcilia anziché ciò che divide le persone, le culture e i popoli.
La chiamata di Francesco è la nostra.
Proviamo a immaginare cosa questo significhi in un contesto come quello in cui viviamo, qui in Terra Santa e in Medio Oriente, dove sperimentiamo le divisioni tra le Chiese ma anche l’anelito all’unità, dove sperimentiamo il conflitto e la divisione tra persone che appartengono a popoli e religioni diverse, dove abbiamo visto e vediamo tanta distruzione, dovuta a conflitti e guerre rispetto alle quali ci dobbiamo saper porre con lo sguardo semplice di Francesco e il suo desiderio di riparare, di riconciliare, di ricollegare, di riunire.
È come una grande pace che si trova nel profondo dell’anima ed è il segno della presenza dello Spirito Santo nel cuore di un uomo che si è sentito profondamente amato da Dio, esageratamente amato da Dio e da Lui salvato per sua grazia e misericordia.
È la gioia che sgorga dal cuore di chi ha colto il senso profondo e positivo di tutto ciò che esiste e il fatto che siamo incamminati, tutti, in questo pellegrinaggio che ci riconduce al Padre, assieme ad ogni uomo e ad ogni donna, ma anche insieme ad ogni creatura e all’intero creato.
Questo è il sentimento che guida Francesco anche nell’istante della morte e lo porta ad accogliere cantando “sora nostra morte corporale”, che per lui diventa “la porta della vita” (2Cel 217: FF 809).